Lungo la costa viveva una
popolazione marinaresca, perlopiù di pescatori, che della
navigazione marittima aveva, al massimo, frammentarie nozioni
trasmesse oralmente dall'ultimo Portolano del Ministero ma, nelle
vene, sangue salmastro.
Bisognava prendere il
largo nel chiarore metallico di prima che albeggi, per salpare le
reti, che la luce solare, rischiarando l'acqua, consentiva a
molluschi e crostacei, di raggiungere facilmente e cibarsi dei pesci
rimasti imprigionati e morti tra le maglie.
Sempre la bruma, in ogni
stagione, gli bagnava il viso, imperlava le ciglia e sopracciglia e i
primi raggi tiepidi del sole, cristallizzavano microgrumi di sale su
quei peli che luccicavano, come cosparsi di polvere di vetro.
Stava chino a poppa, alla
barra, vicino ai comandi del diesel, che borbottando monotono,
spingeva il gozzo su e giù per l'onde, fino alle tre miglia
dalla riva, dove erano stati calati i "tramagli" per la
pescata della notte.
Non amava il mare, nel
modo e senso di quelli che lo fanno dalla spiaggia ma, da sempre, era
la sua vita. Quasi il suo elemento, anche se non ci si immerse mai
per capriccio o divertimento. Per bisogno si e con sicumera, quando
c'era da liberare l'elica dalle alghe o qualche rifiuto inciampato
durante la navigazione. Era il posto che conosceva meglio di ogni
altro al mondo: ci viveva, lavorava e sperava di avere buoni frutti
ogni giornata.
Da un bel pezzo, oramai,
usciva da solo. Il suo ragazzo, il più giovane che l'aiutava:
gli altri avevano scelto di sfacchinare ai moli là nel porto,
era caduto in mare affogandoci, una notte di burrasca, nel tentativo
di salvare le reti che la mareggiata avrebbe portato via
irrimediabilmente.
Gli stringeva il cuore
ripensarci e in quelle notti di pesca solitaria, ci parlava, come
l'avesse lì a prua, a calare o salpare, rassettare sagole o
galleggianti. Come parlava al mare, alla barca, alle creature che
accostano, per caso o volontariamente, gli scafi che vanno per mare:
gabbiani, procellarie, peschi volanti e quei ladroni birbanti dei
delfini, che banchettavano alle sue reti e poi, squittendo, saltavano
fuori dall'acqua, davanti alla prua.
"Guarda Nedo...Si,
poeroammè! magari fosse qui. C'è rimasta un'aragosta,
anche bella, gli è andato di traverso il pesce che ci rubava"
o "Facci un segno qui, c'è uno strappo, va riparato - è
troppo grande per lasciarlo così".
Beccheggiava la barca,
tenuta di prua contro le onde, mentre la fiancata di dritta era
inclinata fino a sfiorare col bordo il pelo dell'acqua, per via del
peso delle reti intrise d'acqua e pesce che salpava.
"Mare cane! come sei
freddo. Almeno dammi un po' di pesce bono, stamattina, così si
fa giornata. Ovvai Gloria - il nome della barca e della moglie -
tieni botta; s'è quasi finito, si va a casa a bersi un bel
ponce al mandarino".
Le reti erano a bordo
quando l'alba, da dietro le colline, allungava ormai le dita da terra
fino al mare che prendeva tutto il colore del cielo, spandendoselo
sulla superficie, come fosse una coperta di seta azzurra.
Il motore s'avviava con
due sbuffi neri dallo scarico di fianco; barra a dritta e lento,
tranquillo verso riva.
Solcavano veloci a prua,
due pinne di delfini. Era da tanto che non succedeva.
Belle immagini del mare, nel fascino che sempre dona, anche a chi ne trae sostentamento...
RispondiEliminaSempre bello leggerti, buon fine settimana Bruno